Pierluigi Diaco: «Sono un uomo tutto nuovo»

2 Settembre 2024

Il conduttore di “BellaMa’” torna dal 9 settembre su Rai 2. «Ho smesso di dare opinioni a ogni costo, mi sono messo in ascolto. E grazie a mio marito Alessio ho capito cos’è l’amore»

«È un varietà. Un programma che si è trasformato nel tempo. E a me piace pensare di entrare in punta di piedi nelle case, di farlo in quella fascia oraria in cui c’è un pubblico largo, tentando sempre di intrattenere con garbo e, magari, anche con un vocabolario sobrio». Pierluigi Diaco, in effetti, misura le parole una per una. Poi abbassa gli occhi e si concede un sorriso, giusto un accenno di sorriso. La ripartenza del suo BellaMa’ è alle porte, sarà in onda dal 9 settembre su Rai 2 e…
E questo «ripaga il mio sentirmi un po’ massaia». Sono parole sue, giusto?
«Lo sa? Ho voluto nel programma una signora che ricama, che fa l’uncinetto, che cuce, nella scena c’è una vecchia macchina da cucire Singer. Penso che ci sia stata un’Italia di donne che ne sono state la struttura e l’ossatura silenziosa, non avevano accesso al mondo del potere e della responsabilità, è un’Italia molto agrodolce quella, che mi commuove. E che ha mosso un’economia sommersa. È proprio a quel tipo di Italia, delle nostre nonne, delle nostre zie, delle nostre madri che mi piaceva fare un omaggio attraverso un’arte che oggi per fortuna non è più ascrivibile solo al mondo femminile».
Per fortuna e per ostinazione il mondo è cambiato. Almeno un po’.
«Fortunatamente e ostinatamente, sì. Nel tempo questa ortodossia è stata tradita, ma resta il valore della casa, come nido, come luogo accogliente. E quel tipo di premura, di predisposizione penso che mi appartenga».
E a forza di accogliere ha preso pure il figlio della Ventura, Giacomo Bettarini, il che sicuramente sta facendo discutere. È stato per questo che l’ha arruolato?
«La verità? Intanto ci sono state più di 4 mila iscrizioni al sito di Rai Casting, però, quando ho saputo che fra queste iscrizioni c’era stata pure quella di Giacomo, mi sono incuriosito. Non lo conoscevo, gli abbiamo fatto un provino, via remoto, con Skype, e siamo rimasti colpiti, per la gentilezza e per la rabbia, è stato lui a chiamarla così, rabbia, quella è il sentimento che lo attraversa, è un ragazzo che cerca un riscatto - e questo è comprensibile - dall’essere visto e vissuto come “figlio di”. L’abbiamo preso. Ora è ovvio che ha fatto titolo, ma sarà trattato come tutti gli altri».
Se ne è discusso un po’ anche sui social.
«Io faccio una vita un po’, anzi, parecchio analogica, non ho nessun tipo di profilo. Vede, chi come me ha il privilegio di esprimersi tutti i giorni in tv e in radio credo che non debba».
Che cosa pensa dei social? Sinceramente.
«Sinceramente? Sono una fiera della vanità, credo che l’era digitale ci abbia scippato la parola più bella che esista: condivisione. E poi è anche una sagra delle solitudini: a me sorprende che i miei colleghi vogliano esserci a tutti i costi, per quel che mi riguarda ho cercato e sto cercando di lavorare all’opposto, sulla sottrazione e sulla lentezza. Per costruire le cose c’è bisogno di tempo, per sedimentare emozioni e sentimenti ci vuole del tempo. Semmai credo in un altro tipo di immediatezza che riguarda l’autenticità».
In pratica?
«Tento di fare una tv improvvisata, nei miei programmi non c’è copione, non c’è scaletta, non vedo gli ospiti prima, tendo a improvvisare, credo nella verità della diretta televisiva, nell’immediatezza, appunto, mi piace pensare che si inizi con una domanda, questo è un insegnamento di Maurizio Costanzo, e ci si metta in ascolto. È dall’ascolto che nascono tutte le altre domande».
Per l’autenticità si deve essere parecchio preparati.
«Per improvvisare è indispensabile avere una vera solidità culturale, che nasce dalla curiosità e dalla predisposizione verso l’altro. Significa sottrarsi al proprio ego per mettersi al servizio delle storie altrui. Non è una cosa che avviene naturalmente, almeno per me è stato così, ci si allena a questo, io sono più di trent’anni che faccio questo mestiere fra radio e tv».
Ha esordito a 15 anni, temo siano quasi 32.
«Sì, anche io temo 32 e la cosa che mi piace di più fare oggi è quella di essere un mezzo, un tramite, magari imparando la leggerezza, in passato ero più spigoloso, tendevo a esprimere sempre le mie opinioni, oggi penso che non interessino a nessuno le mie opinioni, penso che un conduttore debba solamente lasciar parlare il reale».
In questo “io che diventa noi” non è che un ruolo fondamentale l’abbia giocato l’amore? Amore che ha un nome e un cognome: Alessio Orsigher. Lasciamo parlare il reale?
«Penso che valga anche qui il valore della lentezza, nel senso che l’innamoramento ti porta oltre che a maturare – inevitabilmente - un desiderio fisico, se diventa amore per davvero, ti porta anche ad avere una visione, quindi una proiezione sul futuro. Questo se parliamo della persona con cui scegli di condividere la tua vita, allora è chiaro che la trasformazione, l’evoluzione di un sentimento si deve basare sulla lentezza, sulla capacità di mettersi in ascolto, di stare l’uno accanto all’altro, di condividere gli alti e i bassi».

Il resto dell'intervista su CHI 36 in edicola dal 4 settembre

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