Nel suo nuovo libro il conduttore della “Ruota della fortuna” intreccia i ricordi con gli ultimi 60 anni di storia. «Devo il successo al coraggio di rischiare e... a un pacchetto di patatine»
Gerry Scotti è un uomo che ama raccontare e che ama ricordare. La campagna dove è nato, i suoi genitori, l’arrivo a Milano, gli studi al liceo classico e poi a Giurisprudenza, e quella sliding door, nel 1982, quando, con il biglietto pronto per volare a Los Angeles e diventare un affermato pubblicitario, venne chiamato da Claudio Cecchetto per la nascente Radio Deejay: Gerry scelse la radio e nacque così il conduttore televisivo che ci tiene compagnia da oltre 40 anni. C’è tutto questo e altro in Quella volta, il secondo libro di Gerry Scotti, in cui il conduttore racconta la sua vita ma anche la nostra, incrociando ricordi personali a eventi che hanno segnato la storia degli ultimi sessant’anni.
Nei ricordi c’è sempre un po’ di malinconia, di nostalgia. Quando diventano dolci?
«Io cerco di ripulire i reperti, come quelli che vai a pescare in fondo al mare, dalla patina della nostalgia che, essendo “algia”, un termine di origine greca, richiama al dolore. Ecco, cerco di ripulire i ricordi dal dolore perché, se mi sono rimasti dentro, sono belli. La nostalgia dei miei genitori è forte, però ci penso e dico: “Non è vero che non ci sono più, io ci sono perché ci sono stati i miei genitori, e sono come sono - che piaccia o non piaccia - per le cose che mi hanno insegnato e trasmesso”. Valutando tutto ciò, ritengo che il bicchiere non solo sia mezzo pieno, ma sia quasi all’orlo».
Lei ha scritto un libro, Amadeus ha scritto un libro, la serie sugli 883 è un successo e voi siete ancora tutti sulla cresta dell’onda: che cosa avevano quegli Anni 80 per lasciare un segno così forte?
«Siamo rimasti perché siamo gli ultimi ad avere fatto la scuola, la palestra, siamo gli ultimi che hanno fatto la gavetta. Da lì in poi sono arrivati tanti con la pretesa di essere bravi, di essere fighi, e sai perché? Siamo stati talmente bravi da far credere a chi ci vedeva e ascoltava che fosse facile, e così tutti hanno pensato di poterlo fare. Ma non lo è, devi dare quell’idea che sia facile, altrimenti diverti saccente. Il nostro è un mestiere, se non vogliamo chiamarla arte, e in ogni mestiere occorre mettere impegno, accuratezza, attenzione, amore e cura».
Si è parlato della separazione fra Max Pezzali e Claudio Cecchetto e di altre grandi separazioni nello spettacolo: secondo lei perché a volte si litiga con il proprio mentore? È una legge della vita, dei “figli che uccidono i padri” o di chi ha lavorato con Cecchetto?
«Non scomoderei i filosofi greci, forse è una regola dello spettacolo. Ho notato qualche caso simile nello sport, nel calcio, quando qualcuno dice a qualcun altro che è stato ingrato. Anche nella musica e nel cinema a volte succede. È tipico nel mondo dello spettacolo: c’è sempre qualcuno che ha il vanto di dire: “Quella persona l’ho creata io”. Ma, secondo me, dire di uno: “L’ho creato io”, è come sentirsi Dio, e non va bene. L’unico a poter dire: “L’ho inventato io” è Pippo Baudo, che conduceva le trasmissioni più importanti e ha dato opportunità a molti. Ma sentirsi dire di essere stato creato da qualcuno è troppo, va a finire che ci litighi».
Lei, però, non ha litigato con il suo mentore.
«Sa perché non ho litigato con Cecchetto? Perché quando mi ha voluto di fianco a sé, io ero già Gerry Scotti. La nostra è stata una scelta reciproca di stare insieme, è stato importante ed è stato importante che lui abbia creduto prima di me in quello che avrei potuto fare. In questo è stato determinante, ma su di me non ha mai detto “Questo l’ho creato io”, ero già grande e grosso. Fra quelli che si sono affidati a lui, non lo ha detto nemmeno di Fiorello, penso non lo abbia detto nemmeno di Jovanotti. Lo ha detto di altri, che sente più sue “creature”, e con loro c’è stato questo screzio».
Nel suo libro ci sono due temi che tratta con particolare affetto: suo figlio e i viaggi.
«Mio figlio è la cosa che mi è riuscita meglio nella vita. I viaggi che ho compiuto, anche quelli avventurosi, sono la cosa che ho fatto con più gusto, perché pensavo che non sarei mai riuscito a farli, e questo mi riempie di orgoglio: aver affrontato sfide impossibili. Sto progettando di andare nella Terra del fuoco con la moto. Sono sfide al di sopra della percezione pantofolaia che voi avete di me, sono sfide che pongo a me stesso».
Sembra Mike Bongiorno quando andava a scalare le montagne.
«Lui era più azzardato ma anche più sportivo, io lo faccio una volta sola».
Mike disse di essere passato dalla Rai a Mediaset perché: “Preferisco rispondere agli sponsor che alla politica”. Per questo lei non è mai andato in Rai?
«Aver accettato di fare la tv commerciale mi ha reso un uomo libero. Mi avete sentito parlare di zuppe, di bevande, di pannolini, ma nessuno in 42 anni è entrato nel mio camerino dicendomi: “Devi dire questo o quello”. Nessuno, mai. E allora lo posso dire: “Sono un uomo libero”».
Qualcuno ha scritto che La ruota della fortuna potrebbe sfidare Affari tuoi.
«Una cosa fatta bene può sfidare qualunque programma, ho tanti cavalli di battaglia e, se vogliamo fare una provocazione, potrei dirti che anche Chi vuol essere milionario? e The Wall possono sfidare Affari tuoi. Ma non fanno parte del mio panorama attuale, perché il mio prossimo impegno sarà a Striscia la notizia, quindi non vedo l’applicabilità».
Amadeus è andato a Discovery, e ha sfidato il suo Io canto generation con un titolo che lei conosce bene, La Corrida. Lei ha fatto quasi il 15%, lui un ottimo 6%, tutto sommato. Cosa ne pensa?
«Ha fatto bene a cambiare rete, perché cambiare fa sempre bene. Io non mi copro di numeri quando vinco e neanche quando perdo, sono contento quando pareggio con onore. È una strana scelta, lui è uno pronto, all’altezza delle situazioni, però non ho visto tutto questo grande evento nel ritorno della Corrida, si camuffano da eventi i ritorni di cose già viste. Ma, se salirà negli ascolti, avrà indovinato».
Diciamo che riportare titoli storici è una tendenza di questa tv.
«Anch’io faccio La ruota della fortuna e cerco di farla in maniera moderna, adattandola ai tempi. La tv mondiale, che viene guardata da miliardi di persone, ha nei titoli storici i pilastri. Gli americani hanno in onda programmi da 50 anni, quindi non dobbiamo vergognarci del titolo vecchio, vergogniamoci se lo facciamo male. Se regalasse a sua moglie una borsa di Hermès di 50 anni fa e la portasse bene, penso che la apprezzerebbe (ride, ndr)».
È vero che la sua carriera è decollata grazie alle patatine?
«Lavoravo a Radio Deejay e conducevo Deejay television. D’estate, quando c’era il Festivalbar, andavo a girare la “cartolina” della città, uno spazio all’interno al programma. Prima della puntata registravo lo spot per una ditta di patatine e andavo fra i ragazzi del pubblico a distribuirle. Il patron del Festivalbar, Vittorio Salvetti, sentì un boato al mio arrivo. Chiese: “Ma chi è entrato, un cantante?”. Lo disse perché era lui a salutare il pubblico prima dell’arrivo dei cantanti e, allora, mi fece chiamare. Pensavo mi volesse sgridare per aver violato un rito, invece mi disse: “Dunque, tu sei Gerry?”. “Sì”, risposi, dandogli del lei. “Chiamami Vittorio”, mi disse. E aggiunse: “Bene, il prossimo anno lo presenti tu il Festivalbar”».
Non parla mai delle sue conquiste femminili.
«Non ho parlato delle mie conquiste altrimenti il libro sarebbe stato di 20 pagine e Rizzoli non me l’avrebbe pubblicato, sarebbe stato un volumetto di scarso interesse. Ho sempre avuto la fissa della fidanzatina, poi della moglie, adesso la compagna della mia vita che è Gabriella e sopporta questo mio lato più pesante che è scrivere libri».
Lei sa tutto e ama parlare di tutto.
«Mio nonno era un contadino, aveva la terza elementare ma sapeva a memoria la Divina commedia. Mia madre e mio padre mi hanno dato gli strumenti per studiare. Ma penso che la curiosità sia una mia caratteristica. La mia compagna Gabriella per prendermi in giro mi dice che avrei dovuto fare il portinaio, perché parlo di tutto con tutti, e che so tante cose perché conduco i quiz».
In realtà lei dà l’impressione di sapere già di suo le risposte dei quiz.
«Sì, ma come le ho detto prima non bisogna mai darlo a vedere, non bisogna essere saccenti».
Visto che nasce pubblicitario, ci lanci il suo libro, Quella volta, con uno slogan.
«L’agenzia per la quale ho lavorato per quattro anni, una delle più importanti al mondo, aveva uno slogan: “La verità detta bene”. Visto che spesso ci premuriamo di dire bene le bugie, dovremmo imparare a dire bene anche la verità».